sabato 7 maggio 2011

"Quando suonerà l'ultima campana"




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Le ultime parole di Andrea Geremicca
"A 16 anni decisi di lasciare gli studi e dedicarmi al partito dopo che mia madre si era uccisa nelle mie braccia. Quando incrocio una ragazza che sorride, vorrei fermarla e farmi raccontare i suoi sogni. Poi mi trattengo. Alle volte mi sento solo in un insopportabile dolore. Poi penso che non sono l'ombelico del mondo"

di OTTAVIO RAGONE


Con la politica dominava il dolore, lo teneva a distanza, come un domatore le belve. Pensare, capire e freneticamente agire per gli altri a cuore aperto, come fanno i veri generosi: Andrea Geremicca leniva il male così, senza pensare al futuro.
"Col presente invece ho un rapporto fortissimo", confidava.
"Vivo ogni momento come se fosse l'unico, nel senso che non voglio perdere un attimo e non mi distraggo mai. E quando suonerà la campana dell'ultimo giro, continuerò a pedalare senza darmi per vinto".

Ora che la campana è suonata e gli occhi di Geremicca non guizzano più di quella scintillante intelligenza, bisogna che lui parli almeno una volta di se stesso e non dei suoi innumerevoli amici. Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Pietro Valenza, Gerardo Chiaromonte, Carlo Fermariello, Maurizio Valenzi.
Sempre gli altri. Oggi no, Andrea, oggi tocca a te.
Questi appunti in cui si descriveva li aveva consegnati a "Repubblica" dopo una delle tante conversazioni con il nostro giornale. Così, un giorno, ragionando di politica davanti a un caffè, nella sede della fondazione Mezzogiorno Europa, a Santa Lucia.
Quattro paginette di resoconto autobiografico, nello stile asciutto e letterario di Geremicca: "Non chiedetemi date, non ricordo neppure la data degli avvenimenti più importanti della mia vita. Zero assoluto.
Invidio chi racconta quanti eravamo a tavola la sera di 35 anni fa, chi eravamo, quello che abbiamo mangiato e cosa ci siamo detti.
Non ricordo ma non ho smarrito nulla del mio passato: gioie, dolori, emozioni.
Sta tutto dentro di me.
Fa parte di me. Io sono quello che sono stato, giorno dopo giorno.
E che sono in questo momento.
Sono sempre presente a me stesso.
Vigile, curioso di tutto quello che mi sta succedendo. Mi interessa ogni cosa, bella o brutta, è la vita.
E io amo (amavo, per la verità) la vita.
Alle volte mi sembra (mi sembrava) di stringerla tra le dita, morbida e tiepida come pasta lievitata".



Comunista, Geremicca lo è stato fino all'ultimo. Non per ideologia, ma con libertà di pensiero e adesione ai più alti valori umani.
"Nel partito sono entrato giovanissimo, alla fine degli anni Cinquanta.
Appartenevo a una famiglia della borghesia intellettuale napoletana.
Mio nonno Alberto senatore liberale e sindaco di Napoli prima del fascismo. Mio padre ricercatore chimico, frequentava ambienti democratici e liberali, in particolare la famiglia Croce.
Io studente del liceo Umberto, ero uno dei tanti fighetti di via dei Mille.
Bravo a scuola (otto e nove in italiano e latino), di punto in bianco decisi di lasciare gli studi per dedicarmi all'attività di partito.
Non per motivi economici. E neppure per ragioni ideologiche e culturali, ero troppo giovane, praticamente un ragazzo.
Volli rompere con l'ambiente di via dei Mille, appunto, e con una vicenda familiare sofferta e travagliata.
Mia madre si era uccisa nelle mie braccia quando non avevo ancora sedici anni, e io sentivo il bisogno di una svolta.
Decisi di dedicare la mia vita al Pci, perché i comunisti "volevano cambiare il mondo".
E valeva la pena di impegnarsi e sacrificarsi per un grande progetto di pace, giustizia, libertà, riscatto del Mezzogiorno, e via dicendo".
La politica e il giornalismo, due passioni fuse insieme.
"Ho sempre amato scrivere.
Ho cominciato con un giornalino scolastico, quando avevo 15-16 anni, poi sono stato redattore capo e inviato dell'Unità.
Ho scritto due libri". La scrittura e "tutto il resto": staffetta partigiana in Val d'Ossola; segretario dell'associazione Pionieri d'Italia, della commissione giovanile Cgil, della Federazione giovanile comunista, del Pci a Napoli.
E poi consigliere comunale, membro della giunta Valenzi. Deputato per tre legislature.

"Un'altra ragione che mi ha portato a compiere la scelta dell'attività politica a tempo pieno sta nel fatto che per me la politica era ed è sempre stata un'occasione, uno strumento per migliorare la vita della gente, delle persone in carne e ossa, a cominciare dai più deboli.
E io amo e ho sempre amato la gente.
Mi interessa.
Mi piace conoscere e parlare con le persone, ascoltare le loro storie, i loro problemi, i loro sogni, le loro idee.
Alle volte, quando per strada incrocio una ragazza che sorride da sola, vorrei fermarla, e chiederle cosa la fa sorridere, e farmi raccontare i suoi pensieri, i suoi sogni, le sue speranze.
Poi mi trattengo per evitare equivoci, non si sa mai...
Quando parlo con qualcuno, se non "entro" nella sua testa, e non capisco cosa pensa, cosa prova, quali sono i suoi sentimenti, come vive la propria vita, mi sento male. Per me la politica come apparato organizzativo e ideologico fine a se stesso non ha mai avuto senso.
Io le cose le volevo e le voglio cambiare, per la gente e con la gente".

Quando l'assessore alla ricostruzione dopo il terremoto del 1980, Uberto Siola, fu ferito dalle Brigate Rosse, Geremicca lo sostituì in giunta. La piantina della sua casa fu scoperta in un covo dei terroristi.

"E io allora presi il porto d'armi e cominciai a girare con la pistola", ricordava Geremicca, sorridendo, con quell'aria da ragazzino scapestrato eppure profondamente assennato. "Pum, pum, pum, mi allenavo al poligono.
Non si sa mai, almeno avrei venduto cara la pelle". Le sofferenze private avevano segnato gli ultimi anni di Andrea. "Alle volte mi sento solo in un insopportabile dolore. Poi mi guardo attorno, vedo tanti amici, tante persone con le loro gioie e i loro affanni, e penso che tutto sommato non sono l'ombelico del mondo. Sono parte di una umanità che mi piace ancora ascoltare e che forse è ancora disposta ad ascoltarmi".
Vederlo ora così, Geremicca. Irriconoscibile. Rimpicciolito in quella bara come se in un giorno solo avesse quarant'anni di più.
Il volto azzannato dal dolore, ora sì, senza quel sorriso che lo faceva amare. Risibile vittoria.
"Continuerò a pedalare senza darmi per vinto". Come lui volle, la vita non scivola dalle pagine scritte.







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